Progresso o decadenza
di Subramanyam
Leggiamo in un frammento, ex incertis locis, di Gaio Lucilio, tratto dalle Satire: «Ora dalla mattina fino a notte nei giorni festivi e in quelli / lavorativi, tutto il popolo e i senatori senza distinzione, / si agitano tutti nel Foro – non se ne allontanano mai – / tutti intenti col medesimo zelo ad un’unica arte, / imbrogliarsi a vicenda con astute parole, combattersi con la frode, / gareggiare in complimenti, fingersi persone perbene e solvibili, / tendere insidie, come se fossero nemici, tutti contro tutti» (trad. di L. Canali).[1]
In alcune note sulla satira, Arturo Carbonetto scrive: «Lucilio fu un uomo geloso della sua dignità e fu il primo scrittore autonomo e libero da ogni dipendenza dai magistrati dello stato nella sua attività di letterato».[2] Egli, dopo aver combattuto in Spagna con Scipione l’Emiliano, si dedicò all’otium letterario, rifiutandosi di percorrere il cursus honorum, la carriera politica, pur avendone le qualifiche per nascita e censo.
La citazione riportata, che risale a più di duemila anni fa, sorprende per la sua contemporaneità. Sembra un ritratto fedele dell’attuale situazione parlamentare italiana e mondiale: tutti contro tutti. Ma come – viene spontaneo domandarsi – dopo più di duemila anni gli uomini non sarebbero nemmeno minimamente migliorati?
Sorge il fondato sospetto che non solo non siano migliorati, ma che addirittura siano peggiorati. Lucilio, infatti, oltre a fustigare letterariamente i cattivi costumi (corruzione, disonestà, faziosità), riconosceva e pregiava i tradizionali valori romani che alcuni suoi concittadini incarnavano.
Per contro, nel mondo attuale sono ormai quasi del tutto assenti quegli aspetti ordinatori ed armonizzatori circa i quali si potrebbe manifestare piena soddisfazione. I valori tradizionali sono stati distrutti in nome dell’avanzare di una società “nuova”, emancipata da ogni oscura “superstizione” di natura spirituale, fondata sui “diritti” dell’individuo-consumatore a realizzare desideri che gli vengono suggeriti dall’esterno, proiettata verso la nefasta utopia omologatrice del globalismo politico-economico e guidata da una sedicente scienza che si dichiara detentrice di un potere illimitato.
Forse, quale unico dato autenticamente positivo, associato a tempi infausti e difficili, emerge la possibilità – evidenziata da Julius Evola in Cavalcare la Tigre – di intraprendere una Via realizzativa immediata, conservando integre, nell’ipocrisia e nella pochezza generali, le più alte qualità virili.
Per il resto, tutto ciò che di valido fondava la visione dell’essere umano “normale” oggi viene rinnegato, sovvertito o sostituito con una paccottiglia parodistica del “bene”: è lecito sperimentare incroci tra embrioni umani ed animali; espiantare organi vitali ad un uomo ancora vivo, benché in gravi condizioni di salute, è pratica compassionevole e benefica; l’utilizzo dei droni viene consigliato da John Brennan, nuovo capo della Cia, quale “forma più umana di guerra”; uccisioni e stragi, perpetrate persino da minorenni, affollano quotidianamente le pagine dei giornali; anche gli omosessuali maschi e femmine hanno il “diritto” di sposarsi ed avere figli; le parole “madre” e “padre”, stimate obsolete e discriminanti nei confronti degli omosessuali, verranno sostituite da “genitore 1” e “genitore 2”; gli uteri e lo sperma possono già essere affittati o venduti; la cementificazione avanza, distruggendo la Natura intesa unicamente quale risorsa da sfruttare; si auspica l’abbattimento del concetto di “persona” in quanto centro consapevole di sé, depositario della libera scelta e di responsabilità; l’animalismo, l’antispecismo e alcune correnti ecologiste, che pretendono di appiattire lo status umano su quello animale, raccolgono un sempre maggior numero di seguaci; e così via delirando.
Lucilio nel suo frammento rileva come, nel disordine generale, l’unica “arte” perseguita sia quella di imbrogliarsi a vicenda. Un’esagerazione? In parte, verosimilmente, se ci si riferisce alla società romana del I, II sec. a. C. (che sicuramente possedeva la capacità di confrontarsi con l’Ombra senza lasciarsene travolgere e di accedere ad una conoscenza integrale dell’uomo), non certo se si guarda ai tempi attuali. Oggi, purché si sia sufficientemente liberi nell’intelletto, non si può volgere il capo in alcuna direzione, senza scorgere segni macroscopici di corruzione, complotti, devastazioni, imbrogli resi presentabili dalla giustificazione per eccellenza: la democrazia; ed è un evento rarissimo trovare, nei vari campi del sapere, persone che propongano o difendano “i valori tradizionali”. A scanso di equivoci, va precisato che con quest’ultima locuzione non ci si riferisce alla perpetuazione fanatica di gusci vuoti, bensì di contenuti e princìpi immutabili.
Alcune settimane fa, mentre leggevamo una raccolta di racconti scritti da August Derleth sulla base di appunti, abbozzi di intrecci o brani epistolari stilati da H.P. Lovecraft, ci siamo imbattuti in una nota dei Curatori in cui si spiega che cosa fosse il Lusitania citato ne’ L’eredità dei Peabody: «Piroscafo inglese che venne affondato il 7 maggio 1915 da un sottomarino tedesco: l’episodio – con oltre 1000 vittime – contribuirà all’ingresso degli Stati Uniti nella prima Guerra Mondiale. Per oltre sessant’anni si ritenne il Lusitania una inerme nave passeggeri colpita proditoriamente e volontariamente, a scopo terroristico: insomma un crimine di guerra. Oggi, dopo le ricerche di uno storico inglese, Colin Simpson (Il Lusitania, Rizzoli, Mi 1974), la verità ricostruita appare un’altra: la nave era un incrociatore ausiliario armato, dalle stive cariche di materiale bellico per la guerra europea e dalle cabine affollate da migliaia di passeggeri mandati consapevolmente allo sbaraglio in acque infestate da sottomarini tedeschi dai capi militari alleati allo scopo di suscitare tra gli americani un’ondata di indignazione tale da indurli ad entrare in guerra contro gli Imperi Centrali. E così avvenne».[3]
Basterebbe quest’unica informazione per squarciare il velo dietro cui si occulta l’infamia (evidentemente ai paladini del progresso democratico importa poco della salute spirituale, morale e corporale del demos). Per non dire delle mille altre verità scandalose del XX sec. che la ricerca storica ha fatto affiorare, ma che i media e l’istruzione scolastica nascondono, deformano o minimizzano ad usum delphini. Tra l’altro, sulla scorta di simili dati, chi ci impedisce di sospettare che anche dietro la tragedia delle Twin Towers si nasconda qualcosa di simile? Appaiono piuttosto ciechi e irrazionali quelli che, in buona o cattiva fede, si accaniscono a tacciare di “complottismo” ogni tentativo – non importa se sostenuto dalla più rigorosa razionalità – di far emergere la realtà dietro le versioni politiche di comodo, spacciate spesso come dogmi incontestabili.
Chiunque volesse osservare con occhio equanime il mondo contemporaneo dovrebbe ammettere che siamo immersi nelle barbarie, malgrado l’intenso e ipnotico sfavillio dell’iper-tecnologia, le cui chiavi stanno nelle mani di pochi “soffiatori”. Ma ormai la potenza della menzogna oscurante il Bene essenziale si sta avvicinando a grandi passi al superamento della propria massima estrinsecazione (secondo alcuni sociologi siamo già nel post-moderno) e da dietro le tronfie ideologie dell’evoluzionismo e del progressismo, cominciano a trasparire l’avidità e la stupidità enormi che pretenderebbero di guidare le sorti umane verso l’annichilimento.
D’altra parte, come può reggersi – ma anche solo sussistere – un albero senza radici? Le “radici” simboleggiano il significato ultimo: il Supremo Bene-Conoscenza-Illuminazione a cui attinge e su cui si fonda la Coscienza universale di cui l’ánthropos è, almeno potenzialmente, pieno depositario.
Che il mondo moderno sia involuto piuttosto che evoluto lo hanno dimostrato ad abundantiam i grandi tradizionalisti del secolo scorso: René Guénon, Ananda Coomaraswamy, Titus Burckhardt, Julius Evola, per non citarne che alcuni tra i più noti in Occidente. Ciò non toglie che pure in ambiti cosiddetti “alternativi” o “esoterici” continuino a proliferare pensatori, soltanto superficialmente “non allineati”, le cui idee si rivelano funzionali al mantenimento dell’establishment oscurantistico moderno.
Pochi giorni orsono ci siamo imbattuti, all’interno di un sito ispirato al bioregionalismo, alla spiritualità “laica” e all’ecologia profonda (che ospita scritti di varie tendenze), in alcune considerazioni paradigmatiche, secondo le quali i cinesi andrebbero apprezzati quali benefattori della nazione tibetana. Essi infatti avrebbero invaso il Tibet per portarvi benessere e indipendenza, liberandolo da una forma perniciosa di dominazione religiosa, il Lamaismo buddhista, perpetrata dalla casta sacerdotale, il cui obbiettivo esclusivo sarebbe sempre stato quello di arricchirsi a dismisura, sfruttando la popolazione e mantenedola nell’ignoranza.
L’estensore di tali osservazioni – che si autoproclama emancipato da ogni illusione religiosa – sostiene altresì che avversare i cinesi significherebbe favorire tout court l’imperialismo americano. Egli si accanisce particolarmente contro la servitù della gleba (che scambia per schiavitù) a cui, prima dell’invasione cinese, sarebbe stata soggetta la maggioranza dei contadini tibetani, dimostrando di non conoscere il significato profondo della locuzione “servo della gleba”, nella quale è implicito il senso di appartenenza alla terra (“gleba” significa “zolla”) e l’accettazione della funzione-dharma associata alla propria nascita.[4] Del resto è evidente che una simile persona non solo non è disposta a concedere all’uomo nessun significato superiore oltre la mera prosperità biologica o psichica, ma non riesce neppure a intuire e a rispettare l’enorme sofferenza di un popolo a cui si nega la possibilità di conservare la propria identità. Ad un esponente dell’Associazione Italia-Tibet, che gli fa notare come sia in atto un vero e proprio genocidio e come la gente tibetana, pressoché all’unanimità, rifiuti l’occupazione cinese, egli risponde che in ogni caso, anche qualora si accettasse l’idea che i cinesi siano degli invasori, è vano lottare per abbattere una dittatura al fine di ripristinare quella ben peggiore del Lamaismo.
Abbiamo riportato quanto sopra come esemplare con l’intento di lumeggiare a quali assurde deviazioni siano esposti gli individui che, nell’anarchia imperante (scambiata per avvisaglia di una imminente civiltà-mercato mondiale, senza frontiere, né lingue, né tradizioni culturali e religiose), hanno per unico punto di riferimento la contestazione epidermica del Sistema vigente, a cui in realtà servono col loro fervore progressista, appartenendovi armi e bagagli, sia pur incosapevolmente.
A proposito dell’abbaglio di credere che la modernità porti maggiore libertà rispetto alla società tradizionale, risponde egregiamente Alessio Mannino nel suo articolo Società aperta?: «Prima dell’industrialismo e della sua smania borghese di regole, l’individuo subiva molte meno interferenze nella propria vita privata di quante ne subisce oggi. Il contadino pre-moderno poteva passarsela parecchio male per ragioni economiche, perché magari il raccolto dell’annata era andato male, ma anche quando era un servo della gleba i suoi obblighi si limitavano alle corvées e alla decima, per il resto viveva sul suo senza obblighi di sorta che non fosse il legame ereditario alla sua terra [...] la libertà non va confusa con la possibilità astrattamente illimitata. Una libertà è tale nel momento in cui, se voglio, posso goderne. Adesso, nella democrazia che si proclama liberale, sono libero ma solo all’interno di tante e tali regole che, di fatto, non sono più libero».[5]
Le culture antiche erano assai più consapevoli rispetto a quella attuale di stampo occidentale – dilagata urbi et orbi – delle due facce componenti l’uomo: quella conscia e quella inconscia, quella diurna e quella notturna, e sapevano che per vederle entrambe contemporaneamente, risolvendone la conflittualità e la parzialità, ci si doveva servire di uno specchio. Il compito di consentire una visione integrale su noi stessi veniva assolto dalla tradizione sapienziale o religiosa alla quale si apparteneva o da una Guida, un Maestro. Vedere, da svegli, il proprio lato in ombra equivaleva ad una sorta di lucida discesa agli Inferi da intraprendere tenendo ben salda la lampada dell’Iniziazione. Con l’Iniziazione (o con varie iniziazioni se si seguiva una via più lenta) si veniva introdotti alla Conoscenza del Soggetto ultimo, divino, non duale e supremamente benefico, che in realtà si È. Per risvegliare nell’imo del Cuore tale preziosa sapienza ci si doveva tuttavia preliminarmente purificare da ogni identificazione nel separato e nell’effimero.
Ai nostri giorni la mansione dello specchio viene adempiuta da sedicenti organizzazioni “esoteriche”, appartenenti all’area new age, e da molte scuole psicologiche o psicoanalitiche, le quali operano esclusivamente a livello orizzontale, preoccupandosi che l’individuo non soggiaccia al conflitto interiore tanto da rimanere incapacitato a svolgere in modo efficace i ruoli sociali a cui è stato, spesso forzatamente, avviato. Per usare una metafora, la psicologia o il falso esoterismo non aprono la porta della prigione, ma ne dipingono le pareti interne con rappresentazioni confortanti; in termini terapeutici sono l’antibiotico che salva nell’immediato, pur senza toccare la causa prima della malattia.
Anche nell’ottica testé esaminata non sembrerebbe si sia appurato un miglioramento. Semplicemente si può ipotizzare che l’uomo del XXI sec. sia “vestito” meglio; si tratta dunque di un ammodernamento dei rivestimenti esterni, sotto i quali però il soggetto resta poco o punto consapevole di Sé, in preda alla confusione o alla completa ignoranza circa la propria reale identità e dunque di gran lunga più debole, credulone e suggestionabile rispetto all’uomo tradizionale.
A questo punto riteniamo opportuno chiarire ulteriormente quale sia la chiave da noi addottata per valutare i concetti di “progresso” o di “regresso”.
La tradizione del Sanātana-dharma ci spiega che la vita umana ha quattro sensi o scopi: Dharma: realizzare quel che si è realmente sul piano personale, il dovere, la virtù, ecc.; Artha: il successo nella società, la famiglia, la ricchezza, il benessere, l’azione; Kāma: il desiderio-passione a cui si associano varie forme di godimento; Mokṣa: liberazione dal servaggio all’ignoranza principiale, la realizzazione di Sé sul piano metafisico. Quest’ultimo, il puruṣārtha, rappresenta il significato ultimo.
Scrive Alain Daniélou: «È solamente dopo aver realizzato gli altri sensi della vita che si può raggiungere lo scopo ultimo, il distacco totale che conduce l’uomo all’obbiettivo finale, la liberazione (mokṣa), il quarto e il vero senso della vita umana. Proprio perché dimenticano che la realizzazione spirituale è lo scopo finale e reale della vita, gli uomini si attaccano ad ambizioni che non sono conformi alla loro natura e creano così un disordine sociale che trascina l’umanità intera verso delle catastrofi».[6]
La citazione di A. Daniélou va meditata attentamente. Ecco allora che, se si tiene presente il puruṣārtha, progredire significa appressarsi allo scopo finale dell’esistenza, maturandone una sempre maggiore comprensione; regredire equivale ad allontanarsene o a dimenticarsene. Si progredisce altresì non nell’avvicinamento a una mèta posta al di fuori di noi, bensì nello svelamento della nostra irriducibile Realtà o Divinità intrinseca. Il Cammino è quindi un processo di purificazione, di semplificazione, non di acquisizione. Solo l’Oro conosce l’Oro. L’impurità separativa che si frappone tra L’Oro disceso nell’individuazione e l’Oro trascendente è l’apparenza (ābhāsa) da rimuovere. Nota Māyi Deva, ultimo codificatore del Vira Śaiva Darśana nel XV sec.: «L’adorazione di Śiva è opera di Śiva soltanto».[7]
Verbi quali “rimuovere” o “distaccare” non vanno tuttavia intesi negativamente; non si tratta di reprimere o di negare alcunché, bensì di ascendere di pienezza in pienezza, di comprensione in comprensione o di realizzazione in realizzazione. Nell’opera di Daniélou poc’anzi citata si legge un’altra riflessione che evoca bene lo spirito tantrico (non contrapposto, ma complementare a quello vedāntico) di cui è permeata la Terra dei Bharata: «La frase del Santo: “Io non ho mai rinunciato ad alcun vizio, sono loro che mi hanno lasciato”, riassume l’atteggiamento indù nei confronti del piacere».[8]
Naturalmente quanto sopra non deve farci dimenticare che, secondo una differente prospettiva, per elevarsi è indispensabile compiere uno “sforzo” nel discriminare tra ciò che favorisce la comprensione illuminativa e la sua attuazione e ciò che la ostacola. Scrive Vasugupta, precursore dello Śivaismo del Kaśmīr: «Il Tremendo è sforzo»,[9] ovvero: per realizzare Bhairava, il “Tremendo”, un epiteto di Śiva, ci si deve impegnare con tutte le proprie forze. Tale concetto viene completato in un sūtra successivo: «La potenza più eccellente di tutte, ucciditrice del male, è la stessa volontà (dello yoghin)».[10] Abbiamo citato Vasugupta al fine di non essere assimilati a quelle correnti pseudo-spirituali, nel tempo presente assai in auge, che, travisando gli insegnamenti apicali di Gauḍapāda o di Śaṅkara o di qualche Maestro Zen, enfatizzano nel Cammino unicamente il “non fare”, il “non lottare”, la vacuità di distinguere tra “bene” e “male” o tra “schiavitù” e “liberazione”, l’inutilità di essere iniziati da un autentico gurudeva, poiché si è già illuminati. Costoro, tra l’altro, aggrappati a formulette di comodo, credono che il semplice capire razionalmente sia di per sé Illuminazione, mentre invece c’è una discrepanza sostanziale tra la conoscenza soltanto intellettuale (bauddha-jñāna) e la Conoscenza integrale (pauruṣa-jñāna), relativa alla persona nella sua totalità.[11]
Qui giunti – chiusa la digressione – si comprenderà come l’insegnamento tradizionale non additi un ingenuo e nostalgico ritorno al passato, bensì un risveglio nel Centro atemporale, nel quale ci si deve e ci si può riconoscere, affermando la supremazia della propria natura divina sul trasmigrare delle apparenze (saṁsāra).
Nella presentazione alla sua importante opera Il Mito dell’Eterno Ritorno, Mircea Eliade scrive: «Abbiamo ripartito la nostra materia sotto poche grandi rubriche: 1) fatti che ci mostrano che per l’uomo arcaico la realtà è funzione dell’imitazione di un archetipo celeste; 2) fatti che ci mostrano come la realtà è conferita dalla partecipazione al “simbolismo del centro”: le città, i templi, le case diventano reali per il fatto di essere assimilate al “centro del mondo”;[12] 3) infine, rituali e gesti profani significativi che realizzano il senso a loro dato soltanto perché ripetono deliberatamente certi atti posti ab origine da dèi, da eroi o da antenati».[13] Il Centro rappresenta la Realtà assoluta. Per svelarlo in noi, occorre seguire un cammino arduo che conduce: «[...] dal profano al sacro, dall’effimero e dall’illusorio alla realtà e all’eternità, dalla morte alla vita, dall’uomo alla divinità».[14]
Anche presso la nobilissima tradizione dello Śivaismo del Kaśmīr, la questione centrale intorno alla quale ruotano tutta la sua dottrina e la sua sādhanā è il riconoscimento del Sé, pratyabhijñā. Il Sé, infatti, chaṅkarae è la Presenza della Coscienza di Śiva, la Persona assoluta, nel centro del paśu, l’anima individuata, non è esterno o scisso da quello che l’uomo è, bensì ne costituisce l’intima verità. Non diversamente, le Upaniṣad affermano all’unisono che il Sé è il Brahman.
Incidentalmente notiamo che il parlare di “Persona assoluta” all’interno dello Śivaismo kaśmīro non è un’incogruenza o una forma di fanatismo devozionale, ma deriva dalla peculiarità di questa Tradizione, per la quale Śiva o, ancor più, Paramaśiva (che dovrebbe corrispondere al Quarto Stato, o turīya, dell’advaita vedānta) è, in virtù della sua libertà dinamica, cosciente di Sé. Da ciò deriva l’assiologia tantrica e il suo atteggiamento benefico nei confronti della dimensione fenomenica che non viene vista quale mera sovrapposizione al Brahman, come nell’advaita Śaṅkariano (sovrapposizione-upādhi alla cui origine, per altro, è impossibile dare una spiegazione ragionevole), bensì quale gioiosa manifestazione della beatitudine e della libertà (svātantrya) di Śiva. Nota Kamalakar Mishra in una sua opera illuminante di recente tradotta in italiano: «La logica della libertà dell’Assoluto esige anche che Śiva si possa manifestare in qualsiasi forma, diciamo, per esempio, nella forma del mondo [...] Se Śiva fosse solo trascendente, cioè che va oltre le apparenze, e non fosse anche libero di manifestarsi, allora Śiva non sarebbe completamente libero. Śiva non solo ha la “libertà da”, che ha anche il Brahman dell’advaita vedānta, ma ha anche la “libertà di” apparire in forme diverse».[15] Non a caso tra i mille ed otto nomi di Śiva vi è quello provvidenziale di “Murtija”: «Lord Śiva, as we mortals know Him most, is in the human form».[16]
Tornado alla questione della pratyabhijñā, citiamo ancora Kamalakar Mishra: «Il vero problema è che non siamo consapevoli della nostra reale identità. [...] Il tantra afferma che la vera natura del Sé è Śiva, che è pura Coscienza (śuddha saṃvit), lo stato di libertà e perfezione. [...] Inconsapevoli della nostra vera natura, non riconosciamo che siamo Śiva. Nel momento in cui abbiamo questa realizzazione siamo liberi».[17]
Alla luce di quanto detto, credo dovrebbe sorgere spontanea la domanda circa l’opportunità di dedicare le proprie migliori energie al progresso di quello che viene definito “il mondo materiale” (per lo Śivaismo il grado più denso di manifestazione della Coscienza). È senz’altro giusto utilizzare la propria intelligenza per rendere la vita contingente confortevole, ma, una volta che si siano soddisfatti i bisogni riguardanti il corpo e la psiche, ci si dovrebbe occupare del tema fondamentale insito nella domanda: “Chi sono Io?”. Il che implica abbandonare lo strumento inadatto della scienza empirica per avviarsi lungo gli aurei sentieri della Scienza Sacra.
In genere assistiamo all’oscillazione tra i due estremi: materia e Spirito; in verità non c’è una netta distinzione tra i due, giacché tutto è Coscienza vibrante più o meno consapevole di Sé. La maggiore o minore intensità della consapevolezza determina la gerarchia tra gli enti nella prospettiva tradizionale. Nel mondo moderno, invece, la gerarchia è determinata dalla quantità di ricchezza, potere coercitivo, erudizione accumulati.
È importante comprendere come il “male” non sia connaturato alla “materia” immersa nell’oscurità, ma derivi dalla libera scelta dell’uomo di negarsi o di aprirsi alla Luce, la Natura del Sé. Certo la molteplicità non potrebbe esistere senza l’ignoranza, ma questa, rispetto al “male”, ne è soltanto la causa necessaria, non la causa sufficiente. Innegabilmente la schiavitù e la liberazione sono il gioco (līlā) di Śiva, ma il “male”, lo ribadiamo, non è il frutto della Sua volontà (icchā), bensì conseguenza, effetto di un uso sbagliato della libertà della quale, in quanto micro-epifanie divine, siamo dotati.[18]
L’osservazione attenta e l’esperienza insegnano che il deliberato aggrapparsi a risposte superficiali: “Io sono questo o quello” condanna l’uomo alla sofferenza, al conflitto, alla frustrazione, all’alienazione. Possiamo maturare la capacità tecnologica di clonare qualsiasi essere vivente, o di andare su Marte, o di raggiungere in brevissimo tempo qualsiasi luogo sulla terra, o di contare tutti i pesci nel mare, o di esercitarci a compiere qua e là spassosi “salti quantici”, ma se non ci orientiamo verso la Conoscenza di Quello che siamo in nuce, tutta la nostra fatica si riduce ad un futile chiasso offerto all’insignificanza.
Eppure tale frastuono, espressione di un ente che si pensa sottomesso ad un perenne e cieco divenire, necessariamente fondato su una mancanza incolmabile (andrò, conoscerò, raggiungerò, conquisterò, accumulerò), ci viene proposto, o addirittura imposto, come “progresso” od “evoluzione”: il massimo fine (non importa se irraggiungibile) auspicabile. In termini sanscriti lo si può definire quale karman: l’azione causale, implicante una distinzione tra soggetto, oggetto, mezzo e risultato, che vincola alla trasmigrazione (saṁsāra). Tutt’altra cosa, invece, è kriyā: l’attività spontanea, libera, serena, sgorgante dalla pienezza della coscienza di essere l’Essere e quindi libera dalla dualità.[19]
Significativamente l’opera Le Dimore Filosofali di Fulcanelli si conclude con un capitolo intitolato Paradosso del progresso illimitato delle scienze; ne citiamo alcune frasi: «Ai desideri soddisfatti succedono altri desideri insaziati. Insistiamo su questo, l’uomo vuole procedere in fretta, sempre più in fretta, e questa agitazione rende insufficienti le possibilità di cui dispone. Trascinato dalle sue passioni, dai suoi desideri, dalle sue paure, vede allontanarsi indefinitamente l’orizzonte delle sue speranze. È una corsa sfrenata verso l’abisso [...] Infine, non diremo niente di nuovo dicendo che la maggior parte delle scoperte, dapprima orientate verso l’accrescimento del benessere umano, sono assai presto deviate dal loro scopo ed indirizzate specificatamente verso la distruzione».[20]
Si noti come l’alchimista scrivesse nella prima metà del secolo scorso. Oggi le sue parole assumono un rilievo ancor più pregnante: l’agitazione, la fretta, la smania di cambiare, l’instabilità, le guerre sono aumentate in modo esponenziale e la tecnologia distruttiva ha raggiunto una portata apocalittica. A dispetto di ciò, il mondo rigurgita di illusi che si aspettano dalla scienza la capacità di risolvere tutti i mali, abbattendo quei limiti etici e naturali che si erano sempre ritenuti inviolabili. Invece di contemplare l’esistenza sub specie aeternitatis, costoro si aggrappano alle vane promesse dell’informatica o della genetica o delle ricerche spaziali, dando per certo che il mondo evolverà all’infinito. Per contro, chi scrive, in sintonia con Fulcanelli, crede che l’umanità si stia avviando a grandi passi verso la resa dei conti, giacchè nessuno che non sia un Risvegliato o un devoto Conoscitore di Sé può sottrarsi alla ciclicità della Manifestazione e alla Legge del karmaphala, per la quale si raccolgono i frutti delle proprie azioni, sia a livello individuale che collettivo.
A rimarcare la diversità dell’orientamento tradizionale, proponiamo un brano tratto dall’Introduzione all’Ātma-Vijñāna di Swami Yogeshwaranand Saraswati: «Nei tempi antichi, il capofamiglia di età avanzata, che aveva assolto a tutte le responsabilità familiari, si ritirava dalle attività del mondo per meditare nella foresta. Anche i grandi Brahmacārin religiosi [...] ispirati dal desiderio di aiutare il mondo a raggiungere la conoscenza spirituale, usavano dimorare nei ritiri silvestri. Essi [...] contribuivano a mantenere vivo l’elevatissimo patrimonio culturale tradizionale, impartendo un’educazione generale di base ai giovani, permeata di grande spiritualità. Non solo la gente comune, ma anche re ed imperatori avevano assoluta fiducia in questi educatori, ed inviavano loro i propri figli affinché venissero educati da coloro che consideravano i migliori uomini del loro tempo. [...] Gli ideali nazionali di quei tempi erano ad un livello veramente elevato. Questo è il motivo per cui i figli di quei capifamiglia dotati di buoni saṁskāra (impressioni della mente), ragazzi come Satyakāma e Naciketas erano considerati la personificazione stessa della verità».[21]
Lo Swami ci offre uno spaccato dell’India arcaica ormai quasi del tutto scomparsa. In quei tempi il padre era anche il primo Maestro e talvolta persino il Maestro ultimo, come nei casi di Satyakāma e Naciketas, indicati nella citazione. Le cosmologie ortodosse d’Oriente ed Occidente sostengono che l’intelligenza e l’elevatezza di tali tempi torneranno al momento opportuno, non uguali nella forma, ma identici nello spirito.
Per quanto ci riguarda, tuttavia, non sarebbe saggio se ci ponessimo in una passiva situazione di attesa; piuttosto quei tempi andrebbero ricostituiti in un’interiore compiutezza, verificando in prima persona come la Sapienza auto-consapevole sia eterna e non conosca, in ultima istanza, né fasi di allontanamento, né di avvicinamento. Qualora dovessimo riconoscere in tutta onestà di non avere forze sufficienti a tanto, dovremmo prendere rifugio in qualche Scuola o Tradizione di origine sovrumana capace di indicarci un percorso di purificazione e di anamnesi adatto al nostro stato coscienziale.
Senza bisogno di salire su alcun pulpito, una corretta ispirazione o, ancor più, l’intensa aspirazione alla Liberazione in vita (jīvanmukti) o a quella differita, al momento della morte (videhamukti), aiuterebbero il mondo a sgravarsi dalla follia del “male-egoismo” che lo attanaglia e dal fardello dell’ignoranza connaturata al gioco apparente della molteplicità.
In un commento al sūtra 39 dello Śivānandalaharī – La possente onda della divina Pienezza, di Śaṅkara, leggiamo una riflessione che riassume egregiamente uno tra gli assunti portanti del presente scritto: «Śiva è il Re dei re; quando egli farà della mente la sua capitale e vi prenderà residenza tutto andrà bene nel mondo. Il dharma regnerà nei suoi dominï e non vi sarà traccia di peccato; la saggezza e la gioia saranno il possesso di ognuno e la perfezione sarà il frutto supremo».[22]
Sarebbe da stolti permettere alle parole “Śiva” o “peccato” di respingerci, perché estranee alla forma tradizionale o al lignaggio spirituale cui si appartiene. L’importante è cogliere l’Insegnamento essenziale contenuto nel commento riportato, lasciandosene, appunto, “segnare”, indelebilmente.
dalla Rivista ATRIUM anno XV n. 1 aprile 2013 (per gentile concessione dell'autore)
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[1] La Lirica d’Occidente, Ugo Guanda, Mi 1990, p.92.
[2] Arturo Carbonetto, La Poesia Latina, La Nuova Italia Editrice, Fi 1988, p. 56.
[3] H. P. Lovecraft, A. Derleth, La Lampada di Alhazred, Fanucci, Roma 1977, p. 45.
[4] Gli uomini moderni, fuorviati dal miraggio di una illimitata libertà contingente, ripudiano l’autentica libertà di aderire al dharma e dimenticano che il coltivare la terra crea necessariamente un vincolo: quando il grano è maturo lo si deve raccogliere prima che piova. Sino a non molti anni or sono vivevano ancora in Italia contadini che non si erano mai allontanati dal loro paese e a cui era estraneo il concetto di “vacanza”.
[5] Fonte: Rassegna Stampa di Arianna del 10.03.2013.
[6] Alain Daniélou, I Quattro Sensi della Vita, Neri Pozza Editore, Vi 1998, pp. 87,88.
[7] José Pereira, Manuale delle Teologie Induiste, Astrolabio-Ubaldini, Roma 1979, p. 395.
[8] Alain Daniélou, op. cit., p. 87.
[9] Vasugupta, Śiva Sūtra, 5, in Testi dello Śivaismo, a c. di Raniero Gnoli, Boringhieri, To 1968.
[10] Ibidem, 13.
[11] Kamalakar Mishra, Tantra – Lo Śivaismo del Kaśmīr, Lakṣmī Edizioni, Sv 2012, cfr. la sezione 7.3 intitolata Conoscenza intellettuale e conoscenza esistenziale.
[12] Si veda in proposito il notevole articolo di Giovanno M. Tateo, Tradizione e Civiltà, in Centro Studi Paradêsha – Voce del pensiero tradizionale WordPress.com. Ne citiamo un passo: «La Civiltà tradizionale è totalmente radicata nell’Assoluto, fondata sulla divina Intelligenza universale; la sua essenza ed esistenza, in tutte le sue varie manifestazioni, è interamente metafisica, pertanto si potrebbe a buon diritto chiamarla “Civiltà metafisica” o, forse ancor meglio, “Civiltà dell’uomo metafisico”; giacché essere un “uomo della Tradizione” ed essere un “uomo metafisico” sono la stessa ed identica cosa».
[13] Mircea Eliade, Il Mito dell’Eterno Ritorno, Borla, Roma 1969, p. 18.
[14] Ibidem, p. 35.
[15] Kamalakar Mishra, op. cit., pp. 145, 146.
[16] Vijaya Kumar, The Thousand Names of Shiva, Sterling Publishers, New Delhi 2008, p. 35.
[17] Kamalakar Mishra, op. cit., pp. 296, 297.
[18] Cfr., in ibidem, il capitolo dedicato al problema del male.
[19] Kamalakar Mishra, op. cit., p. 332: «Si può eseguire l’azione (karman) solo al fine di soddisfare qualche mancanza, ma se non manchiamo di nulla e nulla vogliamo, perché si dovrebbe compiere un’azione? [...] Nello stato di perfezione, anche se il karman (l’azione voluta con sforzo) non è attuabile, la kriyā (cioè l’attività spontanea derivante dalla pienezza quale libera e naturale esuberanza di beatitudine) è invece molto verosimile. Inoltre la kriyā, a differenza del karman, non crea schiavitù, in quanto la kriyā è un flusso naturale e spontaneo di attività che va oltre le categorie etiche del “bene” e del “male”».
[20] Fulcanelli, Le dimore Filosofali, Ediz. Miditerranee, Roma 2002, vol. II, p 204.
[21] Swami Yogeshwaranand Saraswati, La Scienza dell’Anima (Ātma-Vijñāna), Editrice Lakshmi Niketan, Mi 1988.
[22] Periodico Vidyā, Roma, aprile 2013, p. 13.
In alcune note sulla satira, Arturo Carbonetto scrive: «Lucilio fu un uomo geloso della sua dignità e fu il primo scrittore autonomo e libero da ogni dipendenza dai magistrati dello stato nella sua attività di letterato».[2] Egli, dopo aver combattuto in Spagna con Scipione l’Emiliano, si dedicò all’otium letterario, rifiutandosi di percorrere il cursus honorum, la carriera politica, pur avendone le qualifiche per nascita e censo.
La citazione riportata, che risale a più di duemila anni fa, sorprende per la sua contemporaneità. Sembra un ritratto fedele dell’attuale situazione parlamentare italiana e mondiale: tutti contro tutti. Ma come – viene spontaneo domandarsi – dopo più di duemila anni gli uomini non sarebbero nemmeno minimamente migliorati?
Sorge il fondato sospetto che non solo non siano migliorati, ma che addirittura siano peggiorati. Lucilio, infatti, oltre a fustigare letterariamente i cattivi costumi (corruzione, disonestà, faziosità), riconosceva e pregiava i tradizionali valori romani che alcuni suoi concittadini incarnavano.
Per contro, nel mondo attuale sono ormai quasi del tutto assenti quegli aspetti ordinatori ed armonizzatori circa i quali si potrebbe manifestare piena soddisfazione. I valori tradizionali sono stati distrutti in nome dell’avanzare di una società “nuova”, emancipata da ogni oscura “superstizione” di natura spirituale, fondata sui “diritti” dell’individuo-consumatore a realizzare desideri che gli vengono suggeriti dall’esterno, proiettata verso la nefasta utopia omologatrice del globalismo politico-economico e guidata da una sedicente scienza che si dichiara detentrice di un potere illimitato.
Forse, quale unico dato autenticamente positivo, associato a tempi infausti e difficili, emerge la possibilità – evidenziata da Julius Evola in Cavalcare la Tigre – di intraprendere una Via realizzativa immediata, conservando integre, nell’ipocrisia e nella pochezza generali, le più alte qualità virili.
Per il resto, tutto ciò che di valido fondava la visione dell’essere umano “normale” oggi viene rinnegato, sovvertito o sostituito con una paccottiglia parodistica del “bene”: è lecito sperimentare incroci tra embrioni umani ed animali; espiantare organi vitali ad un uomo ancora vivo, benché in gravi condizioni di salute, è pratica compassionevole e benefica; l’utilizzo dei droni viene consigliato da John Brennan, nuovo capo della Cia, quale “forma più umana di guerra”; uccisioni e stragi, perpetrate persino da minorenni, affollano quotidianamente le pagine dei giornali; anche gli omosessuali maschi e femmine hanno il “diritto” di sposarsi ed avere figli; le parole “madre” e “padre”, stimate obsolete e discriminanti nei confronti degli omosessuali, verranno sostituite da “genitore 1” e “genitore 2”; gli uteri e lo sperma possono già essere affittati o venduti; la cementificazione avanza, distruggendo la Natura intesa unicamente quale risorsa da sfruttare; si auspica l’abbattimento del concetto di “persona” in quanto centro consapevole di sé, depositario della libera scelta e di responsabilità; l’animalismo, l’antispecismo e alcune correnti ecologiste, che pretendono di appiattire lo status umano su quello animale, raccolgono un sempre maggior numero di seguaci; e così via delirando.
Lucilio nel suo frammento rileva come, nel disordine generale, l’unica “arte” perseguita sia quella di imbrogliarsi a vicenda. Un’esagerazione? In parte, verosimilmente, se ci si riferisce alla società romana del I, II sec. a. C. (che sicuramente possedeva la capacità di confrontarsi con l’Ombra senza lasciarsene travolgere e di accedere ad una conoscenza integrale dell’uomo), non certo se si guarda ai tempi attuali. Oggi, purché si sia sufficientemente liberi nell’intelletto, non si può volgere il capo in alcuna direzione, senza scorgere segni macroscopici di corruzione, complotti, devastazioni, imbrogli resi presentabili dalla giustificazione per eccellenza: la democrazia; ed è un evento rarissimo trovare, nei vari campi del sapere, persone che propongano o difendano “i valori tradizionali”. A scanso di equivoci, va precisato che con quest’ultima locuzione non ci si riferisce alla perpetuazione fanatica di gusci vuoti, bensì di contenuti e princìpi immutabili.
Alcune settimane fa, mentre leggevamo una raccolta di racconti scritti da August Derleth sulla base di appunti, abbozzi di intrecci o brani epistolari stilati da H.P. Lovecraft, ci siamo imbattuti in una nota dei Curatori in cui si spiega che cosa fosse il Lusitania citato ne’ L’eredità dei Peabody: «Piroscafo inglese che venne affondato il 7 maggio 1915 da un sottomarino tedesco: l’episodio – con oltre 1000 vittime – contribuirà all’ingresso degli Stati Uniti nella prima Guerra Mondiale. Per oltre sessant’anni si ritenne il Lusitania una inerme nave passeggeri colpita proditoriamente e volontariamente, a scopo terroristico: insomma un crimine di guerra. Oggi, dopo le ricerche di uno storico inglese, Colin Simpson (Il Lusitania, Rizzoli, Mi 1974), la verità ricostruita appare un’altra: la nave era un incrociatore ausiliario armato, dalle stive cariche di materiale bellico per la guerra europea e dalle cabine affollate da migliaia di passeggeri mandati consapevolmente allo sbaraglio in acque infestate da sottomarini tedeschi dai capi militari alleati allo scopo di suscitare tra gli americani un’ondata di indignazione tale da indurli ad entrare in guerra contro gli Imperi Centrali. E così avvenne».[3]
Basterebbe quest’unica informazione per squarciare il velo dietro cui si occulta l’infamia (evidentemente ai paladini del progresso democratico importa poco della salute spirituale, morale e corporale del demos). Per non dire delle mille altre verità scandalose del XX sec. che la ricerca storica ha fatto affiorare, ma che i media e l’istruzione scolastica nascondono, deformano o minimizzano ad usum delphini. Tra l’altro, sulla scorta di simili dati, chi ci impedisce di sospettare che anche dietro la tragedia delle Twin Towers si nasconda qualcosa di simile? Appaiono piuttosto ciechi e irrazionali quelli che, in buona o cattiva fede, si accaniscono a tacciare di “complottismo” ogni tentativo – non importa se sostenuto dalla più rigorosa razionalità – di far emergere la realtà dietro le versioni politiche di comodo, spacciate spesso come dogmi incontestabili.
Chiunque volesse osservare con occhio equanime il mondo contemporaneo dovrebbe ammettere che siamo immersi nelle barbarie, malgrado l’intenso e ipnotico sfavillio dell’iper-tecnologia, le cui chiavi stanno nelle mani di pochi “soffiatori”. Ma ormai la potenza della menzogna oscurante il Bene essenziale si sta avvicinando a grandi passi al superamento della propria massima estrinsecazione (secondo alcuni sociologi siamo già nel post-moderno) e da dietro le tronfie ideologie dell’evoluzionismo e del progressismo, cominciano a trasparire l’avidità e la stupidità enormi che pretenderebbero di guidare le sorti umane verso l’annichilimento.
D’altra parte, come può reggersi – ma anche solo sussistere – un albero senza radici? Le “radici” simboleggiano il significato ultimo: il Supremo Bene-Conoscenza-Illuminazione a cui attinge e su cui si fonda la Coscienza universale di cui l’ánthropos è, almeno potenzialmente, pieno depositario.
Che il mondo moderno sia involuto piuttosto che evoluto lo hanno dimostrato ad abundantiam i grandi tradizionalisti del secolo scorso: René Guénon, Ananda Coomaraswamy, Titus Burckhardt, Julius Evola, per non citarne che alcuni tra i più noti in Occidente. Ciò non toglie che pure in ambiti cosiddetti “alternativi” o “esoterici” continuino a proliferare pensatori, soltanto superficialmente “non allineati”, le cui idee si rivelano funzionali al mantenimento dell’establishment oscurantistico moderno.
Pochi giorni orsono ci siamo imbattuti, all’interno di un sito ispirato al bioregionalismo, alla spiritualità “laica” e all’ecologia profonda (che ospita scritti di varie tendenze), in alcune considerazioni paradigmatiche, secondo le quali i cinesi andrebbero apprezzati quali benefattori della nazione tibetana. Essi infatti avrebbero invaso il Tibet per portarvi benessere e indipendenza, liberandolo da una forma perniciosa di dominazione religiosa, il Lamaismo buddhista, perpetrata dalla casta sacerdotale, il cui obbiettivo esclusivo sarebbe sempre stato quello di arricchirsi a dismisura, sfruttando la popolazione e mantenedola nell’ignoranza.
L’estensore di tali osservazioni – che si autoproclama emancipato da ogni illusione religiosa – sostiene altresì che avversare i cinesi significherebbe favorire tout court l’imperialismo americano. Egli si accanisce particolarmente contro la servitù della gleba (che scambia per schiavitù) a cui, prima dell’invasione cinese, sarebbe stata soggetta la maggioranza dei contadini tibetani, dimostrando di non conoscere il significato profondo della locuzione “servo della gleba”, nella quale è implicito il senso di appartenenza alla terra (“gleba” significa “zolla”) e l’accettazione della funzione-dharma associata alla propria nascita.[4] Del resto è evidente che una simile persona non solo non è disposta a concedere all’uomo nessun significato superiore oltre la mera prosperità biologica o psichica, ma non riesce neppure a intuire e a rispettare l’enorme sofferenza di un popolo a cui si nega la possibilità di conservare la propria identità. Ad un esponente dell’Associazione Italia-Tibet, che gli fa notare come sia in atto un vero e proprio genocidio e come la gente tibetana, pressoché all’unanimità, rifiuti l’occupazione cinese, egli risponde che in ogni caso, anche qualora si accettasse l’idea che i cinesi siano degli invasori, è vano lottare per abbattere una dittatura al fine di ripristinare quella ben peggiore del Lamaismo.
Abbiamo riportato quanto sopra come esemplare con l’intento di lumeggiare a quali assurde deviazioni siano esposti gli individui che, nell’anarchia imperante (scambiata per avvisaglia di una imminente civiltà-mercato mondiale, senza frontiere, né lingue, né tradizioni culturali e religiose), hanno per unico punto di riferimento la contestazione epidermica del Sistema vigente, a cui in realtà servono col loro fervore progressista, appartenendovi armi e bagagli, sia pur incosapevolmente.
A proposito dell’abbaglio di credere che la modernità porti maggiore libertà rispetto alla società tradizionale, risponde egregiamente Alessio Mannino nel suo articolo Società aperta?: «Prima dell’industrialismo e della sua smania borghese di regole, l’individuo subiva molte meno interferenze nella propria vita privata di quante ne subisce oggi. Il contadino pre-moderno poteva passarsela parecchio male per ragioni economiche, perché magari il raccolto dell’annata era andato male, ma anche quando era un servo della gleba i suoi obblighi si limitavano alle corvées e alla decima, per il resto viveva sul suo senza obblighi di sorta che non fosse il legame ereditario alla sua terra [...] la libertà non va confusa con la possibilità astrattamente illimitata. Una libertà è tale nel momento in cui, se voglio, posso goderne. Adesso, nella democrazia che si proclama liberale, sono libero ma solo all’interno di tante e tali regole che, di fatto, non sono più libero».[5]
Le culture antiche erano assai più consapevoli rispetto a quella attuale di stampo occidentale – dilagata urbi et orbi – delle due facce componenti l’uomo: quella conscia e quella inconscia, quella diurna e quella notturna, e sapevano che per vederle entrambe contemporaneamente, risolvendone la conflittualità e la parzialità, ci si doveva servire di uno specchio. Il compito di consentire una visione integrale su noi stessi veniva assolto dalla tradizione sapienziale o religiosa alla quale si apparteneva o da una Guida, un Maestro. Vedere, da svegli, il proprio lato in ombra equivaleva ad una sorta di lucida discesa agli Inferi da intraprendere tenendo ben salda la lampada dell’Iniziazione. Con l’Iniziazione (o con varie iniziazioni se si seguiva una via più lenta) si veniva introdotti alla Conoscenza del Soggetto ultimo, divino, non duale e supremamente benefico, che in realtà si È. Per risvegliare nell’imo del Cuore tale preziosa sapienza ci si doveva tuttavia preliminarmente purificare da ogni identificazione nel separato e nell’effimero.
Ai nostri giorni la mansione dello specchio viene adempiuta da sedicenti organizzazioni “esoteriche”, appartenenti all’area new age, e da molte scuole psicologiche o psicoanalitiche, le quali operano esclusivamente a livello orizzontale, preoccupandosi che l’individuo non soggiaccia al conflitto interiore tanto da rimanere incapacitato a svolgere in modo efficace i ruoli sociali a cui è stato, spesso forzatamente, avviato. Per usare una metafora, la psicologia o il falso esoterismo non aprono la porta della prigione, ma ne dipingono le pareti interne con rappresentazioni confortanti; in termini terapeutici sono l’antibiotico che salva nell’immediato, pur senza toccare la causa prima della malattia.
Anche nell’ottica testé esaminata non sembrerebbe si sia appurato un miglioramento. Semplicemente si può ipotizzare che l’uomo del XXI sec. sia “vestito” meglio; si tratta dunque di un ammodernamento dei rivestimenti esterni, sotto i quali però il soggetto resta poco o punto consapevole di Sé, in preda alla confusione o alla completa ignoranza circa la propria reale identità e dunque di gran lunga più debole, credulone e suggestionabile rispetto all’uomo tradizionale.
A questo punto riteniamo opportuno chiarire ulteriormente quale sia la chiave da noi addottata per valutare i concetti di “progresso” o di “regresso”.
La tradizione del Sanātana-dharma ci spiega che la vita umana ha quattro sensi o scopi: Dharma: realizzare quel che si è realmente sul piano personale, il dovere, la virtù, ecc.; Artha: il successo nella società, la famiglia, la ricchezza, il benessere, l’azione; Kāma: il desiderio-passione a cui si associano varie forme di godimento; Mokṣa: liberazione dal servaggio all’ignoranza principiale, la realizzazione di Sé sul piano metafisico. Quest’ultimo, il puruṣārtha, rappresenta il significato ultimo.
Scrive Alain Daniélou: «È solamente dopo aver realizzato gli altri sensi della vita che si può raggiungere lo scopo ultimo, il distacco totale che conduce l’uomo all’obbiettivo finale, la liberazione (mokṣa), il quarto e il vero senso della vita umana. Proprio perché dimenticano che la realizzazione spirituale è lo scopo finale e reale della vita, gli uomini si attaccano ad ambizioni che non sono conformi alla loro natura e creano così un disordine sociale che trascina l’umanità intera verso delle catastrofi».[6]
La citazione di A. Daniélou va meditata attentamente. Ecco allora che, se si tiene presente il puruṣārtha, progredire significa appressarsi allo scopo finale dell’esistenza, maturandone una sempre maggiore comprensione; regredire equivale ad allontanarsene o a dimenticarsene. Si progredisce altresì non nell’avvicinamento a una mèta posta al di fuori di noi, bensì nello svelamento della nostra irriducibile Realtà o Divinità intrinseca. Il Cammino è quindi un processo di purificazione, di semplificazione, non di acquisizione. Solo l’Oro conosce l’Oro. L’impurità separativa che si frappone tra L’Oro disceso nell’individuazione e l’Oro trascendente è l’apparenza (ābhāsa) da rimuovere. Nota Māyi Deva, ultimo codificatore del Vira Śaiva Darśana nel XV sec.: «L’adorazione di Śiva è opera di Śiva soltanto».[7]
Verbi quali “rimuovere” o “distaccare” non vanno tuttavia intesi negativamente; non si tratta di reprimere o di negare alcunché, bensì di ascendere di pienezza in pienezza, di comprensione in comprensione o di realizzazione in realizzazione. Nell’opera di Daniélou poc’anzi citata si legge un’altra riflessione che evoca bene lo spirito tantrico (non contrapposto, ma complementare a quello vedāntico) di cui è permeata la Terra dei Bharata: «La frase del Santo: “Io non ho mai rinunciato ad alcun vizio, sono loro che mi hanno lasciato”, riassume l’atteggiamento indù nei confronti del piacere».[8]
Naturalmente quanto sopra non deve farci dimenticare che, secondo una differente prospettiva, per elevarsi è indispensabile compiere uno “sforzo” nel discriminare tra ciò che favorisce la comprensione illuminativa e la sua attuazione e ciò che la ostacola. Scrive Vasugupta, precursore dello Śivaismo del Kaśmīr: «Il Tremendo è sforzo»,[9] ovvero: per realizzare Bhairava, il “Tremendo”, un epiteto di Śiva, ci si deve impegnare con tutte le proprie forze. Tale concetto viene completato in un sūtra successivo: «La potenza più eccellente di tutte, ucciditrice del male, è la stessa volontà (dello yoghin)».[10] Abbiamo citato Vasugupta al fine di non essere assimilati a quelle correnti pseudo-spirituali, nel tempo presente assai in auge, che, travisando gli insegnamenti apicali di Gauḍapāda o di Śaṅkara o di qualche Maestro Zen, enfatizzano nel Cammino unicamente il “non fare”, il “non lottare”, la vacuità di distinguere tra “bene” e “male” o tra “schiavitù” e “liberazione”, l’inutilità di essere iniziati da un autentico gurudeva, poiché si è già illuminati. Costoro, tra l’altro, aggrappati a formulette di comodo, credono che il semplice capire razionalmente sia di per sé Illuminazione, mentre invece c’è una discrepanza sostanziale tra la conoscenza soltanto intellettuale (bauddha-jñāna) e la Conoscenza integrale (pauruṣa-jñāna), relativa alla persona nella sua totalità.[11]
Qui giunti – chiusa la digressione – si comprenderà come l’insegnamento tradizionale non additi un ingenuo e nostalgico ritorno al passato, bensì un risveglio nel Centro atemporale, nel quale ci si deve e ci si può riconoscere, affermando la supremazia della propria natura divina sul trasmigrare delle apparenze (saṁsāra).
Nella presentazione alla sua importante opera Il Mito dell’Eterno Ritorno, Mircea Eliade scrive: «Abbiamo ripartito la nostra materia sotto poche grandi rubriche: 1) fatti che ci mostrano che per l’uomo arcaico la realtà è funzione dell’imitazione di un archetipo celeste; 2) fatti che ci mostrano come la realtà è conferita dalla partecipazione al “simbolismo del centro”: le città, i templi, le case diventano reali per il fatto di essere assimilate al “centro del mondo”;[12] 3) infine, rituali e gesti profani significativi che realizzano il senso a loro dato soltanto perché ripetono deliberatamente certi atti posti ab origine da dèi, da eroi o da antenati».[13] Il Centro rappresenta la Realtà assoluta. Per svelarlo in noi, occorre seguire un cammino arduo che conduce: «[...] dal profano al sacro, dall’effimero e dall’illusorio alla realtà e all’eternità, dalla morte alla vita, dall’uomo alla divinità».[14]
Anche presso la nobilissima tradizione dello Śivaismo del Kaśmīr, la questione centrale intorno alla quale ruotano tutta la sua dottrina e la sua sādhanā è il riconoscimento del Sé, pratyabhijñā. Il Sé, infatti, chaṅkarae è la Presenza della Coscienza di Śiva, la Persona assoluta, nel centro del paśu, l’anima individuata, non è esterno o scisso da quello che l’uomo è, bensì ne costituisce l’intima verità. Non diversamente, le Upaniṣad affermano all’unisono che il Sé è il Brahman.
Incidentalmente notiamo che il parlare di “Persona assoluta” all’interno dello Śivaismo kaśmīro non è un’incogruenza o una forma di fanatismo devozionale, ma deriva dalla peculiarità di questa Tradizione, per la quale Śiva o, ancor più, Paramaśiva (che dovrebbe corrispondere al Quarto Stato, o turīya, dell’advaita vedānta) è, in virtù della sua libertà dinamica, cosciente di Sé. Da ciò deriva l’assiologia tantrica e il suo atteggiamento benefico nei confronti della dimensione fenomenica che non viene vista quale mera sovrapposizione al Brahman, come nell’advaita Śaṅkariano (sovrapposizione-upādhi alla cui origine, per altro, è impossibile dare una spiegazione ragionevole), bensì quale gioiosa manifestazione della beatitudine e della libertà (svātantrya) di Śiva. Nota Kamalakar Mishra in una sua opera illuminante di recente tradotta in italiano: «La logica della libertà dell’Assoluto esige anche che Śiva si possa manifestare in qualsiasi forma, diciamo, per esempio, nella forma del mondo [...] Se Śiva fosse solo trascendente, cioè che va oltre le apparenze, e non fosse anche libero di manifestarsi, allora Śiva non sarebbe completamente libero. Śiva non solo ha la “libertà da”, che ha anche il Brahman dell’advaita vedānta, ma ha anche la “libertà di” apparire in forme diverse».[15] Non a caso tra i mille ed otto nomi di Śiva vi è quello provvidenziale di “Murtija”: «Lord Śiva, as we mortals know Him most, is in the human form».[16]
Tornado alla questione della pratyabhijñā, citiamo ancora Kamalakar Mishra: «Il vero problema è che non siamo consapevoli della nostra reale identità. [...] Il tantra afferma che la vera natura del Sé è Śiva, che è pura Coscienza (śuddha saṃvit), lo stato di libertà e perfezione. [...] Inconsapevoli della nostra vera natura, non riconosciamo che siamo Śiva. Nel momento in cui abbiamo questa realizzazione siamo liberi».[17]
Alla luce di quanto detto, credo dovrebbe sorgere spontanea la domanda circa l’opportunità di dedicare le proprie migliori energie al progresso di quello che viene definito “il mondo materiale” (per lo Śivaismo il grado più denso di manifestazione della Coscienza). È senz’altro giusto utilizzare la propria intelligenza per rendere la vita contingente confortevole, ma, una volta che si siano soddisfatti i bisogni riguardanti il corpo e la psiche, ci si dovrebbe occupare del tema fondamentale insito nella domanda: “Chi sono Io?”. Il che implica abbandonare lo strumento inadatto della scienza empirica per avviarsi lungo gli aurei sentieri della Scienza Sacra.
In genere assistiamo all’oscillazione tra i due estremi: materia e Spirito; in verità non c’è una netta distinzione tra i due, giacché tutto è Coscienza vibrante più o meno consapevole di Sé. La maggiore o minore intensità della consapevolezza determina la gerarchia tra gli enti nella prospettiva tradizionale. Nel mondo moderno, invece, la gerarchia è determinata dalla quantità di ricchezza, potere coercitivo, erudizione accumulati.
È importante comprendere come il “male” non sia connaturato alla “materia” immersa nell’oscurità, ma derivi dalla libera scelta dell’uomo di negarsi o di aprirsi alla Luce, la Natura del Sé. Certo la molteplicità non potrebbe esistere senza l’ignoranza, ma questa, rispetto al “male”, ne è soltanto la causa necessaria, non la causa sufficiente. Innegabilmente la schiavitù e la liberazione sono il gioco (līlā) di Śiva, ma il “male”, lo ribadiamo, non è il frutto della Sua volontà (icchā), bensì conseguenza, effetto di un uso sbagliato della libertà della quale, in quanto micro-epifanie divine, siamo dotati.[18]
L’osservazione attenta e l’esperienza insegnano che il deliberato aggrapparsi a risposte superficiali: “Io sono questo o quello” condanna l’uomo alla sofferenza, al conflitto, alla frustrazione, all’alienazione. Possiamo maturare la capacità tecnologica di clonare qualsiasi essere vivente, o di andare su Marte, o di raggiungere in brevissimo tempo qualsiasi luogo sulla terra, o di contare tutti i pesci nel mare, o di esercitarci a compiere qua e là spassosi “salti quantici”, ma se non ci orientiamo verso la Conoscenza di Quello che siamo in nuce, tutta la nostra fatica si riduce ad un futile chiasso offerto all’insignificanza.
Eppure tale frastuono, espressione di un ente che si pensa sottomesso ad un perenne e cieco divenire, necessariamente fondato su una mancanza incolmabile (andrò, conoscerò, raggiungerò, conquisterò, accumulerò), ci viene proposto, o addirittura imposto, come “progresso” od “evoluzione”: il massimo fine (non importa se irraggiungibile) auspicabile. In termini sanscriti lo si può definire quale karman: l’azione causale, implicante una distinzione tra soggetto, oggetto, mezzo e risultato, che vincola alla trasmigrazione (saṁsāra). Tutt’altra cosa, invece, è kriyā: l’attività spontanea, libera, serena, sgorgante dalla pienezza della coscienza di essere l’Essere e quindi libera dalla dualità.[19]
Significativamente l’opera Le Dimore Filosofali di Fulcanelli si conclude con un capitolo intitolato Paradosso del progresso illimitato delle scienze; ne citiamo alcune frasi: «Ai desideri soddisfatti succedono altri desideri insaziati. Insistiamo su questo, l’uomo vuole procedere in fretta, sempre più in fretta, e questa agitazione rende insufficienti le possibilità di cui dispone. Trascinato dalle sue passioni, dai suoi desideri, dalle sue paure, vede allontanarsi indefinitamente l’orizzonte delle sue speranze. È una corsa sfrenata verso l’abisso [...] Infine, non diremo niente di nuovo dicendo che la maggior parte delle scoperte, dapprima orientate verso l’accrescimento del benessere umano, sono assai presto deviate dal loro scopo ed indirizzate specificatamente verso la distruzione».[20]
Si noti come l’alchimista scrivesse nella prima metà del secolo scorso. Oggi le sue parole assumono un rilievo ancor più pregnante: l’agitazione, la fretta, la smania di cambiare, l’instabilità, le guerre sono aumentate in modo esponenziale e la tecnologia distruttiva ha raggiunto una portata apocalittica. A dispetto di ciò, il mondo rigurgita di illusi che si aspettano dalla scienza la capacità di risolvere tutti i mali, abbattendo quei limiti etici e naturali che si erano sempre ritenuti inviolabili. Invece di contemplare l’esistenza sub specie aeternitatis, costoro si aggrappano alle vane promesse dell’informatica o della genetica o delle ricerche spaziali, dando per certo che il mondo evolverà all’infinito. Per contro, chi scrive, in sintonia con Fulcanelli, crede che l’umanità si stia avviando a grandi passi verso la resa dei conti, giacchè nessuno che non sia un Risvegliato o un devoto Conoscitore di Sé può sottrarsi alla ciclicità della Manifestazione e alla Legge del karmaphala, per la quale si raccolgono i frutti delle proprie azioni, sia a livello individuale che collettivo.
A rimarcare la diversità dell’orientamento tradizionale, proponiamo un brano tratto dall’Introduzione all’Ātma-Vijñāna di Swami Yogeshwaranand Saraswati: «Nei tempi antichi, il capofamiglia di età avanzata, che aveva assolto a tutte le responsabilità familiari, si ritirava dalle attività del mondo per meditare nella foresta. Anche i grandi Brahmacārin religiosi [...] ispirati dal desiderio di aiutare il mondo a raggiungere la conoscenza spirituale, usavano dimorare nei ritiri silvestri. Essi [...] contribuivano a mantenere vivo l’elevatissimo patrimonio culturale tradizionale, impartendo un’educazione generale di base ai giovani, permeata di grande spiritualità. Non solo la gente comune, ma anche re ed imperatori avevano assoluta fiducia in questi educatori, ed inviavano loro i propri figli affinché venissero educati da coloro che consideravano i migliori uomini del loro tempo. [...] Gli ideali nazionali di quei tempi erano ad un livello veramente elevato. Questo è il motivo per cui i figli di quei capifamiglia dotati di buoni saṁskāra (impressioni della mente), ragazzi come Satyakāma e Naciketas erano considerati la personificazione stessa della verità».[21]
Lo Swami ci offre uno spaccato dell’India arcaica ormai quasi del tutto scomparsa. In quei tempi il padre era anche il primo Maestro e talvolta persino il Maestro ultimo, come nei casi di Satyakāma e Naciketas, indicati nella citazione. Le cosmologie ortodosse d’Oriente ed Occidente sostengono che l’intelligenza e l’elevatezza di tali tempi torneranno al momento opportuno, non uguali nella forma, ma identici nello spirito.
Per quanto ci riguarda, tuttavia, non sarebbe saggio se ci ponessimo in una passiva situazione di attesa; piuttosto quei tempi andrebbero ricostituiti in un’interiore compiutezza, verificando in prima persona come la Sapienza auto-consapevole sia eterna e non conosca, in ultima istanza, né fasi di allontanamento, né di avvicinamento. Qualora dovessimo riconoscere in tutta onestà di non avere forze sufficienti a tanto, dovremmo prendere rifugio in qualche Scuola o Tradizione di origine sovrumana capace di indicarci un percorso di purificazione e di anamnesi adatto al nostro stato coscienziale.
Senza bisogno di salire su alcun pulpito, una corretta ispirazione o, ancor più, l’intensa aspirazione alla Liberazione in vita (jīvanmukti) o a quella differita, al momento della morte (videhamukti), aiuterebbero il mondo a sgravarsi dalla follia del “male-egoismo” che lo attanaglia e dal fardello dell’ignoranza connaturata al gioco apparente della molteplicità.
In un commento al sūtra 39 dello Śivānandalaharī – La possente onda della divina Pienezza, di Śaṅkara, leggiamo una riflessione che riassume egregiamente uno tra gli assunti portanti del presente scritto: «Śiva è il Re dei re; quando egli farà della mente la sua capitale e vi prenderà residenza tutto andrà bene nel mondo. Il dharma regnerà nei suoi dominï e non vi sarà traccia di peccato; la saggezza e la gioia saranno il possesso di ognuno e la perfezione sarà il frutto supremo».[22]
Sarebbe da stolti permettere alle parole “Śiva” o “peccato” di respingerci, perché estranee alla forma tradizionale o al lignaggio spirituale cui si appartiene. L’importante è cogliere l’Insegnamento essenziale contenuto nel commento riportato, lasciandosene, appunto, “segnare”, indelebilmente.
dalla Rivista ATRIUM anno XV n. 1 aprile 2013 (per gentile concessione dell'autore)
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[1] La Lirica d’Occidente, Ugo Guanda, Mi 1990, p.92.
[2] Arturo Carbonetto, La Poesia Latina, La Nuova Italia Editrice, Fi 1988, p. 56.
[3] H. P. Lovecraft, A. Derleth, La Lampada di Alhazred, Fanucci, Roma 1977, p. 45.
[4] Gli uomini moderni, fuorviati dal miraggio di una illimitata libertà contingente, ripudiano l’autentica libertà di aderire al dharma e dimenticano che il coltivare la terra crea necessariamente un vincolo: quando il grano è maturo lo si deve raccogliere prima che piova. Sino a non molti anni or sono vivevano ancora in Italia contadini che non si erano mai allontanati dal loro paese e a cui era estraneo il concetto di “vacanza”.
[5] Fonte: Rassegna Stampa di Arianna del 10.03.2013.
[6] Alain Daniélou, I Quattro Sensi della Vita, Neri Pozza Editore, Vi 1998, pp. 87,88.
[7] José Pereira, Manuale delle Teologie Induiste, Astrolabio-Ubaldini, Roma 1979, p. 395.
[8] Alain Daniélou, op. cit., p. 87.
[9] Vasugupta, Śiva Sūtra, 5, in Testi dello Śivaismo, a c. di Raniero Gnoli, Boringhieri, To 1968.
[10] Ibidem, 13.
[11] Kamalakar Mishra, Tantra – Lo Śivaismo del Kaśmīr, Lakṣmī Edizioni, Sv 2012, cfr. la sezione 7.3 intitolata Conoscenza intellettuale e conoscenza esistenziale.
[12] Si veda in proposito il notevole articolo di Giovanno M. Tateo, Tradizione e Civiltà, in Centro Studi Paradêsha – Voce del pensiero tradizionale WordPress.com. Ne citiamo un passo: «La Civiltà tradizionale è totalmente radicata nell’Assoluto, fondata sulla divina Intelligenza universale; la sua essenza ed esistenza, in tutte le sue varie manifestazioni, è interamente metafisica, pertanto si potrebbe a buon diritto chiamarla “Civiltà metafisica” o, forse ancor meglio, “Civiltà dell’uomo metafisico”; giacché essere un “uomo della Tradizione” ed essere un “uomo metafisico” sono la stessa ed identica cosa».
[13] Mircea Eliade, Il Mito dell’Eterno Ritorno, Borla, Roma 1969, p. 18.
[14] Ibidem, p. 35.
[15] Kamalakar Mishra, op. cit., pp. 145, 146.
[16] Vijaya Kumar, The Thousand Names of Shiva, Sterling Publishers, New Delhi 2008, p. 35.
[17] Kamalakar Mishra, op. cit., pp. 296, 297.
[18] Cfr., in ibidem, il capitolo dedicato al problema del male.
[19] Kamalakar Mishra, op. cit., p. 332: «Si può eseguire l’azione (karman) solo al fine di soddisfare qualche mancanza, ma se non manchiamo di nulla e nulla vogliamo, perché si dovrebbe compiere un’azione? [...] Nello stato di perfezione, anche se il karman (l’azione voluta con sforzo) non è attuabile, la kriyā (cioè l’attività spontanea derivante dalla pienezza quale libera e naturale esuberanza di beatitudine) è invece molto verosimile. Inoltre la kriyā, a differenza del karman, non crea schiavitù, in quanto la kriyā è un flusso naturale e spontaneo di attività che va oltre le categorie etiche del “bene” e del “male”».
[20] Fulcanelli, Le dimore Filosofali, Ediz. Miditerranee, Roma 2002, vol. II, p 204.
[21] Swami Yogeshwaranand Saraswati, La Scienza dell’Anima (Ātma-Vijñāna), Editrice Lakshmi Niketan, Mi 1988.
[22] Periodico Vidyā, Roma, aprile 2013, p. 13.