Purnananda Zanoni
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Raimon Panikkar

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Uno tra i più eminenti pensatori del '900
teologo, filosofo, scrittore della tradizione cristiana, hinduista e buddhista




        Intervento di Purnananda Zanoni (Convegno di Assisi - novembre 2011)

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Ho nel mio cuore Panikkar, come pure ci sono sempre Abhishiktananda e Bede Griffits, li amo perché sono stati i precursori, gli esploratori, le guide.
Hanno esplorato terre sconosciute: il deserto sconfinato e immobile dell’advaita, 
la foresta pietrificata del samadhi, avvolti nelle nebbie impenetrabili del shunya e
della shunyata, si sono seduti al bordo dei placidi laghetti del nirvana e del moksha, si sono dissetati alla sorgente della jivanmukti, loro che venivano dal kerygma soteriologico della redenzione attraverso la morte, che paradosso la liberazione in vita!
Ma hanno fatto anche il trekking; hanno scalato il monte Uno, l’unico monte che è
sempre lo stesso in Himalaya come nei Pirenei. Vanno sulla cima che è Dio, sembra l’unica (non  avrai altro Dio all’infuori di me...), ma poi vedono che c’è un’altra vetta e vanno su quella, lì Dio è diventato il Padre che ha un Figlio che è pure Dio; la storia dice che questo figlio dopo un po’ se ne va dicendo che tira una brutta aria, hanno anche tentato di farlo fuori; lascia però lo Spirito anche Lui Dio, e sono tre!! ma su Isaia non c’era scritto: Ego sum Dominus et non est alius? a cui fa eco la Chandogya Upanishad 6.2.1: Sat ekam eva advitīyam (l’Essere è Uno senza un secondo). Ma allora la Trinità è destinata a rimanere un mistero?
No! perché l’India segreta e misteriosa ce lo svela il mistero. Bisogna andare in India per capire la Trinità. E Panikkar va in India; non prima di essere andato da quel tal signor Tumistufi per dirgli che non vuole più giocare perché… imbrogliano tutti.
In India, Panikkar concilia la cultura occidentale con la Tradizione eterna, lo spirito con la materia, sì proprio la tanto vituperata materia; in India nel tempio si adora il linga, un fallo di pietra che si erge verso il cielo 
inserito nella yoni tracciata sulla terra. Orrore! la mostruosità teologica del panteismo, adesso addolcita con il trucco semantico del panenteismo; ma che cos’altro è la materia se non l’amore di Dio per la manifestazione? al bambino si dice non toccare: è cacca! si vuole impedirgli di fare l’esperienza diretta.
Io lo so perché Panikkar è andato a Benares. Basta camminare nei vicoli a ridosso del fiume e respirare l’aria mista di cacca e incenso, andare alle 5 sul Gange “oh my god” che spettacolo! annulla ogni altra visione, ogni
pensiero; Panikkar sul ghat esclama: senti che buon odore di carne umana bruciata!
A Benares non si dorme, c’è sempre una luce che ti pervade.
A Benares non c’è silenzio, Dio non sta mai zitto.
A Benares non si sta fermi, Dio si muove sempre.
A Benares non si prega, si è esaltati di Dio.
La sacra vibrazione dell’esistenza pulsa ad una frequenza superiore, quasi insopportabile.
L’India ha una mammella con cui allatta con il latte della  sua conoscenza tutti i figli, anche i figli di madre bretone, di madre inglese, di madre catalana.
Anche noi andiamo in India, consciamente o inconsciamente, non per fare un viaggio, ma per fare “il”
viaggio; per seguire le orme delle guide che ci indicano la via per fare l’esperienza della Verità ultima, 
della Realtà assoluta, dell’Uno che per amore diventa due, e che ci dice:
Tu sei me stesso, sii buono, sii felice...

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Karl Gustav Jung



Il grande medico e psicologo svizzero Carl Gustav Jung descrive in un suo libro autobiografico un’esperienza di particolare intensità e significato:
“Al principio del 1944 [Jung aveva allora 69 anni] mi fratturai una gamba, e a questa disavventura seguì un infarto miocardico. In stato di incoscienza ebbi deliri e visioni che dovettero cominciare quando ero in pericolo di morte e mi curavano con ossigeno e iniezioni di canfora… Mi pareva di essere sospeso in alto nello spazio, e sotto di me, lontano, vedevo il globo terrestre avvolto in una splendida luce azzurrina. Distinguevo i continenti e l’azzurro scuro del mare. Proprio ai miei piedi c’era Ceylon e dinanzi a me, a distanza, l’India. La mia visuale comprendeva tutta la Terra, ma la sua forma sferica era chiaramente visibile e i suoi contorni splendevano di un bagliore argenteo, in quella meravigliosa luce azzurra. In molti punti il globo sembrava colorato o macchiato di verde scuro, come argento ossidato. Sulla sinistra, in fondo, c’era una vasta distesa, il deserto giallo rossastro dell’Arabia: come se l’argento della Terra in quel punto avesse preso una sfumatura di oro massiccio. Poi seguiva il Mar Rosso, e lontano – come a sinistra in alto su una carta – potevo scorgere anche un lembo del Mediterraneo, oggetto particolare della mia attenzione. Tutto il resto appariva indistinto. Vedevo anche i nevai dell’Himalaya coperti di neve, ma a quella distanza c’era nebbia e nuvole. Non guardai per nulla verso destra. Sapevo di essere sul punto di lasciare la Terra. Più tardi mi informai dell’altezza a cui si dovrebbe stare nello spazio per avere una vista così ampia: circa 1500 Km! La vista della Terra a tale altezza era la cosa più meravigliosa che avessi mai visto.”
Le foto scattate dagli astronauti alcuni decenni dopo hanno confermato la congruità di questa visione.
Continuando con il racconto, sospeso nello spazio cosmico, Jung vede una pietra, una specie di meteorite, grande come una casa, simile a certi blocchi di granito che aveva visto a Ceylon, nei quali viene talora scavato un tempio. E anche nel ‘meteorite’ è scavato un tempio: la porta è incorniciata da lampade accese e a destra di essa siede, in attesa, un indù nella posizione del loto. E qui avviene un processo interiore di liberazione e contemporaneamente di immedesimazione col proprio bagaglio terreno. Jung prosegue: “Quando mi avvicinai ai gradini che portavano all’entrata accadde una cosa strana. Eebbi la sensazione che tutto il passato mi fosse all’improvviso tolto violentemente. Tutto ciò che mi proponevo, o che avevo desiderato o pensato, tutta la fantasmagoria dell’esistenza terrena, svanì o mi fu sottratta: un processo estremamente doloroso. Potrei anche dire: era tutto con me e io ero tutto ciò. Consistevo di tutte queste cose, per così dire. Consistevo della mia storia personale e avvertivo con sicurezza: ‘Questo è ciò che sono. Sono questo fascio di cose che sono state e che si sono compiute’. Questa esperienza mi dava la sensazione di estrema miseria e al tempo stesso di grande appagamento. Non vi era più nulla che volessi o desiderassi. Esistevo, per così dire, oggettivamente: ero ciò che ero stato e che avevo vissuto.”
A questo punto però il processo si blocca, avviene qualcosa per cui si deve tornare indietro. “Mentre mi avvicinavo al tempio avevo la certezza di essere sul punto di entrare in una stanza illuminata e di incontrarvi tutte quelle persone alle quali in realtà appartengo. Là finalmente avrei capito – anche questo era certezza – da quale nesso storico dipendessero il mio io e la mia vita e avrei conosciuto ciò che era stato prima di me, il perché della mia venuta al mondo e verso cosa dovesse continuare a fluire la mia vita… Mentre così meditavo accadde qualcosa che richiamò la mia attenzione. Dal basso, dalla direzione dell’Europa, fluiva verso l’alto un’immagine: era il mio medico… Quando quell’immagine mi fu innanzi, ebbe luogo tra noi un muto scambio di pensieri. Il mio medico era stato delegato dalla Terra a consegnarmi un messaggio, a dirmi che c’era una protesta contro la mia decisione di andarmene. Non avevo diritto di lasciare la Terra, dovevo ritornare. Non appena ebbi sentito queste parole, la visione finì.”
Dal racconto notiamo elementi tipici comuni in esperienze NDE simili vissute da molte altre persone: l’uscita dal corpo, il luogo sacro, la dimensione diversa in cui il protagonista agisce, una situazione di confine da cui si è costretti a tornare indietro, oltre le sensazioni di bellezza e di gioia.
Per alcuni giorni Jung visse ancora queste esperienze cosmiche, egli scrisse di essersi sentito “…come sospeso nello spazio al sicuro nel grembo dell’universo, in un vuoto smisurato, ma colmo di intenso sentimento di felicità… E’ impossibile farsi un’idea della bellezza e dell’intensità dei sentimenti durante queste visioni.” E ancora: “Sebbene in seguito abbia ritrovato la mia fede in questo mondo, pure da allora in poi non mi sono mai liberato completamente dell’impressione che questa vita sia solo un frammento dell’esistenza, che si svolge in un universo tridimensionale, disposto a tale scopo… Posso descrivere la mia esperienza solo come la beatitudine di una condizione non temporale nella quale presente, passato e futuro siano una cosa sola.” La realtà terrena era apparsa a Jung come “una sorta di prigione, fatta per scopi ignoti, che aveva una specie di potere ipnotico, che costringeva a credere che essa fosse la realtà, nonostante si fossa conosciuta con evidenza la sua nullità.
Dopo la malattia Jung scrisse le sue opere principali: le intuizioni e le conoscenze derivate da quelle esperienze gli avevano infuso “il coraggio di intraprendere nuove formulazioni”. Dopo la malattia era avvenuta anche un’altra cosa: “Un dir di ‘sì’ incondizionato a ciò che essa è, senza pretese soggettive; l’accettazione delle condizioni dell’esistenza così come le vedo e le intendo. L’accettazione della mia esistenza, proprio come essa è”.ai clic qui per effettuare modifiche.

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